Se è vero che un abito parla di chi lo indossa, è altrettanto innegabile che un capo d’abbigliamento dialoga attivamente non solo con ciò che lo circonda (assumendo significati nuovi a seconda del contesto d’uso, ad esempio), ma anche con ciò che lo precede.  È a partire da questa semplice considerazione che possiamo effettivamente parlare di una simbologia della moda – anche se, come vedremo, parlare di “simboli” è decisamente complesso. 

La parola della moda

In quanto “significante”, l’oggetto-moda è in effetti soggetto a tutte quelle variazioni che caratterizzano qualsiasi sistema semiotico, la cui struttura si tende e si contrae in rapporti che attraversano la quarta dimensione – cristallizzandosi, a seconda delle accezioni, nell’uno o nell’altro “senso”. L’abito, inteso come “parola” della moda, è in questo senso puramente simbolico: esso lega il significante (tessuto, taglio, piega, ecc..) e il significato (eleganza, femminilità, decenza, ecc..) attraverso una relazione determinata storicamente, arbitraria e necessaria allo stesso tempo, che rimanda sempre a qualcosa di “altro” dall’abito – che pur essendo sterno al sistema della moda vi entra a far parte attraverso questa particolare forma di connotazione. 

È proprio questo particolare aspetto del simbolico che permette al testo-moda di generare significati nuovi – orientando in questo modo (esattamente come l’obiettivo di una fotocamera) la nostra percezione del mondo e strutturando la comprensione di questo “altro” al quale di volta in volta si lega. 

Un esempio emblematico di questo processo può essere riconosciuto nella relazione che intercorre tra il Look 17 dell’ultima collezione di Schiaparelli e “L’Apollo di Versailles” del 1938, disegnato dalla fondatrice della Maison. In questo caso, le affinità e nel differenze tra i due modelli scandiscono il movimento di una narrazione che parla non solo dell’abito, ma anche di un corpo plasmato in due sensi profondamente diversi tra loro. In questo caso, il potere simbolico della parola-moda compone due differenti espressioni della femminilità, insistendo con due differenti interpretazioni sul medesimo oggetto. 

L’abito del 1938, realizzato da Elsa Schiaparelli per Lady Mendl, consiste in un mantello di velluto nero decorato con delle placche dorate a formare un disegno che occupa quasi tutta la superficie del tessuto. Ispirata alla Fontana di Apollo dei giardini di Versailles, la decorazione dorata si appropria della figura umana (celata dal taglio largo del mantello) e sostituisce le forme del corpo con la propria forma, con la propria parola. L’abito si costruisce sopra al corpo, lo sommerge, lo investe, lo trasforma: proprio come una casula sacerdotale o un’uniforme militare, si impone come simbolo superando l’individualità. È pura luce che, riflessa dal metallo, cancella le specificità a favore dell’universalità e della totalità – quegli stessi caratteri che definiscono il mondo dell’arte e dello spirituale. Come una vestale, è come se la donna ieratica dell’Apollo di Versailles lasciasse che questo spirito si incarnasse nel proprio corpo. Una simbologia, quella di quest’abito, profondamente diversa dalla proposta della Maison per la FW 21/22. 

Pur riprendendo alcuni elementi formali dell’abito del 1938, il Look 17 si riferisce a un “qui e ora” completamente estraneo alla trascendenza a cui si ispira il suo predecessore. La decorazione dorata si è compressa in un elemento che ha la forma di uno scudo, il mantello si è stretto attorno alla vita e alle braccia. In questo caso ci potrebbe sembrare che sia il corpo a prevalere – potremmo persino essere tentati di dire che l’abito sia stato “zittito”. Tuttavia, non è sufficiente che qualcosa venga mostrato affinché acquisisca automaticamente un significato: come abbiamo avuto modo di vedere poco più sopra, ciò che definisce il valore di un elemento è la sua relazione con altri elementi del sistema. Questo caso non fa eccezione: gli attributi del corpo sono indistinguibili dall’intervento simbolico esercitato dall’abito, che in questo look cede all’immanenza conservando tuttavia una certa aura di protezione – stavolta secolare. 

La giacca maschile, le spalle larghe, lo scudo dorato all’altezza del torace non si relazionano più, infatti, ad una simbologia religiosa, quanto piuttosto ad un immaginario militare dal quale la donna emerge come una moderna Atena. Fungendo da armatura, l’abito plasma una donna-guerriera la cui sacralità è determinata dall’azione, e non più dalla contemplazione: la divisa non parla più al posto di chi la indossa, eppure ne definisce ancora i confini linguistici, rinviando ad una semantica militare.

Da questo confronto emerge con chiarezza che la matrice simbolica dell’oggetto-moda, come osservato inizialmente, non risiede tanto nell’oggetto in sé, quanto nelle relazioni che esso instaura con elementi che sono solo apparentemente “al di fuori” della moda. Invero, sono proprio questi elementi a vivificare il sistema della moda e a permettere la lettura di una narrazione che, in quanto espressione delle trasformazioni sociali, è a tutti gli effetti “linguistica”.